POSTFAZIONE di Massimo Agostini
“Penso che le cose non esistano. Un bicchiere, un uomo, una gallina per esempio, n"on sono veramente un bicchiere, un uomo, una gallina, sono soltanto la verifica delle possibilità di esistenza di un bicchiere, di un uomo, di una gallina. Perché le cose possano esistere bisognerebbe che fossero eterne, immortali. Solo così cesserebbero di essere unicamente la verifica di certe possibilità e diverrebbero cose esistenti”.
Questa è la “lettera sull'immortalità del corpo” di Gino De Dominicis
scritta nel 1969, per spiegare che la
morte è un errore e che la si possa sconfiggere, rovesciando l'idea moderna del
tempo.
Gino
De Dominicis, è un artista controverso protagonista dell'arte italiana del secondo dopoguerra, si è definito
pittore, scultore, filosofo e architetto, che ha trasformato la riflessione dal
problema dello spazio a quello del tempo, coniugandolo con la morte e il
mito.
Ho dovuto parlare di Gino de
Dominicis in una conferenza sull’arte contemporanea, affiancando l’amico Egidio
Senatore, autore di programmi televisivi e tra i collaboratori più stretti di
Gabriele La Porta.
Con le sue opere De Dominicis esprime
l’istante eterno, al
di là dalla coscienza del tempo come successione di eventi dal prima al dopo.
L’arte come la filosofia e la
religione sono eterne, esprimendo il senso infinito della manifestazione e,
proprio per questo, esistono e basta, alla stregua del biblico: “Io sono colui
che è”, espressione di passato, presente e futuro, di un eterno presente,
espresso in un sola sacra vibrazione.
L’interprete dell’eterna
spiritualità è al di fuori del tempo e dello spazio, esprimendo un’essenza che
è senza limiti e confini, ma che tutto comprende.
L’artista, come ogni vero Maestro,
è la torre di congiunzione tra l’eternità inconoscibile e l’opera manifesta, è
il Re-Sacerdote, il Magòs, il padrone dell’energia superna, posta in uno
spazio immobile ed eterno, capace di donare, a chi lo sa coglierne, l’essenza
spirituale.
Parlare della famiglia di Cristo significa
tentare di compenetrare un mistero coperto dalle nebbie di mistificazioni fideistiche,
per cui ogni tentativo di svelarne le vicende, come effettivamente accadute, ha
il rischio di condurre il ricercatore nel melmoso acquitrino dell’astrazione, nel
quale la leggenda trasmuta in realtà oggettiva.
Quella del Cristianesimo è una
storia che è giunta a noi attraverso documenti postumi, dai quali resta sempre
difficile scindere ciò che è storico da ciò che è leggenda, ma che nell’insieme
esprimono una storia eterna, che va oltre ogni realtà manifesta.
Ne consegue che le vicende e i
personaggi, posti a fondamento del cristianesimo, sono difficilmente
tracciabili nell’accezione cronachistica della storia, nell’ambiziosa
descrizione acritica di fatti nella loro successione cronologica.
La figura del Gesù e dei suoi
discepoli vive infatti nel mito di storie leggendarie, costruite al fine di
propagandare un messaggio religioso, spesso legato a logiche di un potere
temporale, sicché lo stesso mito, nel pensiero del credente, viene ad assumere
la valenza di una realtà storica, indiscutibile.
Il cristianesimo infatti vive su
racconti fondati sulla memoria, trasmessa attraverso documenti postumi alle
vicende trattate, ed è ovvio che storia e memoria sono due cose diverse: la
memoria è sempre soggettiva e individuale e, come tale, costituisce un racconto
di parte.
Gli scritti lasciati dai
discepoli, che hanno vissuto successivamente all’epoca di Cristo, sono
inevitabilmente animati dal desiderio di far prevalere la propria convinzione
religiosa, assumendo per questo la valenza simbolica di un percorso spirituale,
che va ben oltre la mera narrazione di fatti accaduti.
Se poi aggiungiamo che gli eventi
sono spesso l’espressione mistificata di un potere dominante e della
conseguente damnatio memoriae di ogni verità contraria, i tentativi di
rintracciare le verità sulle vicende del Cristo storico, oltre a rappresentare
una impresa di grande rilevanza accademica, potrebbe, se affine a se stessa, offuscare
il complesso e arduo sentiero di conoscenza lasciatoci dal mito.
La storia è scritta dai vincitori, e poiché la conoscenza ha in sé il potere di rendere liberi, tentare di svelare verità spirituali oscurate dalla damnatio memoriae, per una migliore comprensione del messaggio lasciatoci, dovrebbe tenere in considerazione che quella “conoscenza nascosta” esprime una valenza simbolico-evocativa che va ben oltre al mero aspetto materiale.
Gesù marito e padre
Che Gesù avesse una famiglia con moglie
e figli, così come sicuramente i suoi fratelli e i suoi apostoli, è una ipotesi
che potrebbe avere il senso di una verità poiché fortemente aderente alla
natura sociale della Palestina di quel tempo, sottoposta alla rigida legge del
Talmud.
Come più volte sostenuto nei miei
libri[i],
nel mondo ebraico, il Talmud stabilisce che per un uomo l’età giusta per il
matrimonio è diciotto anni, mentre è maledetto dal Signore colui che non
ottempera a tale precetto: “Fino a vent’anni il Santo, che benedetto sia, vigila a
che l’uomo si sposi e lo maledice se manca di farlo entro a quell’età” (Talmud, Quid. B29b).
La condizione di sposato e padre
era anche il requisito per essere Rabbi. Non è mai esistito un Rabbi che non
fosse sposato. L’unico Rabbi che fu celibe fu, nel secondo secolo, un certo Ben
Azzay che, proprio per questo, venne severamente biasimato.
La regola del matrimonio e del
procreare figli era talmente radicata che vigeva anche il precetto del
levireato, secondo il quale, nel caso in cui un uomo moriva senza figli, fatto
di grande disonore, il parente più prossimo, in genere il cognato (yābhām), doveva prendere in sposa la vedova per dare dei
figli al defunto; nel caso non lo facesse, la donna stessa o qualsiasi altro
parente poteva acquisirne il diritto.
Appare del tutto evidente che per
quella società, essere chiamato Rabbi corrispondeva, non solo all’essere
sposato, ma addirittura alla condizione di padre: chi non ha figli è
disonorato, disprezzato e ritenuto un vile, a questi è vietato parlare nelle
sinagoghe” e, come ben sappiamo, Gesù parlò nelle sinagoghe.
“Gesù ritornò in Galilea con la
potenza dello Spirito Santo e la sua fama si diffuse in tutta la
regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e tutti ne facevano grandi
lodi. Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo
solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere.” (Lc. 4, 14:17)
Prendere moglie
è considerata una condizione di tale importanza che: “l’uomo
è autorizzato a vendere un rotolo della Torah per ammogliarsi” (Talmud, meg.B,27a), tanto che
chi si astiene dal farlo e di avere figli viene considerato alla stregua di un
assassino e di un bestemmiatore.
Quello ebraico è
un “matrimonio santo” (Qiddushin), ovvero una sacra unione ierogamica, rappresentando la via della
santità[ii].
L’Evenienza che Gesù fosse stato
celibe e senza figli sarebbe stata quindi una palese violazione della legge
ebraica, ma che stranamente non compare tra le accuse formulate dal Sinedrio
nei suoi confronti.
D’altro canto Gesù inizia la sua
predicazione a trent’anni e ben poche sono le notizie relative alla sua
adolescenza e giovinezza. Se il matrimonio doveva essere effettuato prima dei
venti anni, appare fortemente probabile che al tempo della passione Gesù
potesse avere figli di circa 15 anni di età, e quindi già maggiorenni per la
legge ebraica[iii].
Per quanto il suo stato di marito
e padre sia fortemente probabile, la vita di Gesù potrebbe essere stata invece caratterizzata
da un vissuto fuori dai rigidi dettami della legge ebraica.
Alcuni ricercatori sostengono che
il celibato di Gesù fosse dovuto all’appartenenza alla comunità degli Esseni,
ma, a quanto pare, anche gli Esseni, così come attestato dallo storico ebreo
Giuseppe Flavio, non avevano abolito il matrimonio e la propria discendenza.[iv]
Probabilmente solo alcuni di loro, relegati ad una vita isolata di tipo “monacale”,
praticavano il celibato; ma stante la pessima fama di Gesù presso la comunità
ebraica è probabile che egli ebbe poco a che fare con i pii esseni.
Un’altra ipotesi è che Gesù fosse
vicino a qualche setta di tipo iniziatico come quella degli Hassidim,
considerati abili nelle arti magiche, in grado di far piovere, guarire i malati
e scacciare i demoni; o forse come quella gnostica dei Nazirei.[v]
E’ anche probabile che Gesù,
rispetto alla società ebraica, potesse aver avuto un ruolo tutto suo. La sua
origine è in una regione, la Galilea, nota per essere una terra ribelle e
blasfema, un luogo posto ai margini dalla profonda religiosità della Giudea e
separata da questa dall’eretica Samaria.
Dalla metà dell’ultimo secolo
prima di Cristo, la Galilea era la regione più turbolente di tutto Israele, i
cui abitanti vengono descritti da Giuseppe Flavio come “bellicosi fin da
piccoli” e “galileo” era sinonimo di “ribelle”, tanto che molti dei suoi
abitanti militavano nella famigerata setta degli “zeloti”, fautori della “guerra
santa” contro l’occupazione romana della Palestina.
Dai documenti pervenuti fino a
noi, Gesù storico appare infatti come un pazzo, indemoniato, ripudiato, non
solo dal popolo e dai suoi seguaci, ma anche dalla sua stessa famiglia.
Nel mondo
giudaico il documento più antico che parla di Gesù lo definisce “un bastardo di un’adultera” (Yeb. M.4,13),
giustiziato “perché
aveva praticato la stregoneria, sedotto e sviato Israele” (Sanh.B.434a).
Dai vangeli
canonici risulta che neanche i suoi familiari avessero una grande
considerazione nei suoi confronti, così come affermato in Giovanni: “neppure i suoi fratelli infatti
credevano in lui” (Gv 7,5) o in Marco: “I suoi, uscirono per andare a catturarlo poiché
dicevano è fuori di testa” (Mc 3,21).
Gesù appare
quindi agli stessi parenti stretti come un matto da togliere dalla
circolazione, in quanto è il disonore della famiglia.[vi]
Alla pazzia, le autorità
religiose, aggiungevano l’eresia, il legame con il demonio e l’impostura: “Ha un
demonio ed è fuori di sé; perché lo state ad ascoltare?” (Gv
10,20; Mc 9,30); accusandolo anche come “bestemmiatore” (Mt 9,3) e,
come tale, meritevole della pena di morte; tanto più che opera guarigioni
perché “è posseduto da Baelzebul e scaccia i demòni per mezzo del
principe dei demòni” (Mc 3,22).[vii]
Gesù è considerato dalle autorità un
pericolo pubblico da eliminare prima che il suo messaggio contagiasse la gente:
“Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui”.
(Gv.11,48).
Non è forse un caso anche il
disprezzo della folla, che vede Gesù come impostore che “inganna la gente” o il disprezzo dello stesso Giovanni Battista che,
nonostante lo avesse battezzato, riconoscendo in lui il messia preannunciato
dai profeti, sembra successivamente pentirsene: “Sei tu che deve venire o dobbiamo
aspettarne un altro?” (Mt. 11,3), non unendosi peraltro
ai sui apostoli e seguaci.
Persino
molti dei suoi stessi discepoli, scandalizzati dalle sue parole, abbandonarono
lo strano Messia: “Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono
indietro e non andavano più con lui” (Gv 6,66).
Un
profeta rimproverato anche dai suoi apostoli e dalla gente per essere “un
ghiottone e un gran bevitore”, uno che frequentava “pubblicani e
peccatori” (Mt 11,19), donne impure, prostitute, vedove, “gente
maledetta che non conosce la Legge” (Gv 7,49).
Quando
finalmente le autorità riusciranno a catturarlo, Gesù verrà consegnato a Pilato
e accusato non solo dai capi religiosi, ma pure dalla sua stessa gente di
essere un malfattore: “Se non fosse un malfattore non te lo avremmo
consegnato” (Gv 18,30).
A
quanto pare gli unici discepoli che rimasero fedeli a Gesù fino alla fine
furono le sue donne.
Mentre
già nell’ora decisiva del suo arresto, nell’orto degli ulivi, tutti i discepoli
hanno paura e scappano, solo tre donne: Maria Maddalena, Maria sua madre e
Salomè restarono vicine a Gesù. Sono
le sue donne che, nel momento finale, si trovano ad assistere al martirio di
Cristo sul Golgota.
Non
vi sono dubbi che nella vita di Gesù furono proprio le donne ad avere un ruolo
prioritario e fra tutte Maria Maddalena, divenendo l’unica testimone ed erede
del messaggio spirituale di Cristo.
Il ribelle messianico
Che
Gesù potesse essere un ribelle pericoloso, con al suo seguito una nutrita
schiera di seguaci armati (Gv 18,1-18), lo si evince dalla
cronaca della sua cattura sul monte degli ulivi.
La cattura di Gesù appare
infatti come una vera e propria operazione militare, con tanto di servizi
segreti dell’epoca e con l’uso di pentiti.
Il pentito fu Giuda che
vendette l’informazione al Sinedrio per trenta denari.
Per arrestare Gesù, i
Romani schierarono addirittura una “coorte con il comandante e le guardie
dei Giudei” (Gv 18,12), ovvero un distaccamento tra 600 e 1000 soldati
a servizio del procuratore romano, ai quali si devono aggiungere circa duecento
guardie poste a servizio del Sommo Sacerdote del tempio di Gerusalemme.
Gesù non oppose
resistenza, sicuramente per evitare una carneficina dei suoi uomini, infatti,
facendosi incontro ai soldati romani, si arrese, senza colpo ferire, reprimendo
anche la reazione di Pietro che con la sua spada aveva colpito il servo del
Sommo Sacerdote.
Il fatto di impiegare
circa mille uomini armati per catturare il capo di un gruppo di ribelli non può
che indicare che questa persona era estremamente pericolosa.
Gesù domandò loro: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù, il
Nazareno». Gesù replicò: «Vi ho detto che sono io. Se dunque cercate me,
lasciate che questi se ne vadano». Perché s'adempisse la parola che
egli aveva detto: «Non ho perduto
nessuno di quelli che mi hai dato». Allora Simon Pietro, che
aveva una spada, la trasse fuori e colpì il servo del sommo sacerdote e gli
tagliò l'orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. Gesù allora disse
a Pietro: «Rimetti la tua spada nel fodero; non devo forse bere il calice che
il Padre mi ha dato?». (Gv 18, 7:11)
Sta
di fatto che tutti i discepoli scapparono, mentre Gesù fu arrestato e infine
condannato a morte dal suo stesso popolo.
In
mancanza di documenti certi appare difficile tracciare le vere motivazioni
della condanna a morte di Gesù, compresa la modalità di esecuzione della pena.
La crocifissione
I
vangeli, fondati sulla memoria emotiva di alcuni seguaci, testimoniano che Gesù
è accusato dal Sinedrio di uno dei più gravi delitti per la religione ebraica,
la bestemmia, un delitto per il quale è prevista la pena di morte immediata.
Il
diritto ebraico non prevede la crocifissione come pena di morte; quattro sono
le modalità per dare la morte ad un condannato: lapidazione, rogo,
decapitazione, strangolamento; tutti strumenti di morte che non lasciano
scampo.
Stranamente
il Sinedrio, nonostante le pesanti accuse di violazione della legge ebraica,
preferì che a giudicare Gesù fosse Ponzio Pilato, il quale decretò la condanna a
morte tramite crocifissione, una pena riservata a chi commetteva gravi reati
contro i romani, come nel caso di pericolosi rivoltosi.
La
crocifissione, al contrario delle pene di morte previste dalla legge ebraica, non
da morte certa: la croce più che uno strumento di morte, è uno strumento di
tortura che può condurre alla morte del condannato per disidratazione e
asfissia, solo dopo giorni di agonia.
I
corpi rimanevano appesi diversi giorni sulle croci per essere straziati dagli
animali predatori e dall’effetto putrefattivo degli agenti atmosferici,
divenendo così monito a tutti coloro che avevano in animo di opporsi al dominio
dei romani.
L’essere crocefisso
costituiva l’ultimo atto di un supplizio che iniziava con la fustigazione del
condannato; la legge romana sanciva pero che, in questa fase, doveva esserne
impedita la morte. Ad ogni modo il supplizio determinava inevitabilmente un
notevole indebolimento dell’organismo, destinato ad accentuarsi con la prova
successiva che prevedeva il portare il patibulum sulle spalle fino al
luogo della crocifissione.
Per
onore di “cronaca”, anche la vicenda del Golgota potrebbe assumere i connotati
di un intrigo volto ad evitare che Gesù morisse sulla croce.
Suggestiva è infatti
l’ipotesi che la condanna di Gesù alla crocefissione, fosse in realtà uno
stratagemma per evitare le più drastiche pene di morte previste dalla legge
ebraica.
Dai racconti
presenti nei vangeli canonici, apparirebbe in questo senso rilevante il ruolo
di Giuseppe di Arimatea, parente di Gesù e influente personaggio presso il
governatore romano Ponzio Pilato, che si addoperò affinché Gesù venisse deposto
dalla croce solo poche ore dopo la crocifissione, proprio per evitare che
sopraggiungesse la morte, facendolo credere comunque morto agli occhi del
sinedrio e del popolo.
Tante possono
essere le ipotesi che si possono formulare sui possibili stratagemmi utilizzati
per salvare Gesù dalla morte sulla croce, già oggetto di analisi in alcune mie
pubblicazioni[viii], e che vedono come
protagonisti, oltre Giuseppe di Arimatea, Barabba, il “figlio del padre”
salvato dal popolo, Simone di Cirene, costretto a portare la croce al posto di
Gesù (Mt 27, 32) o Simone Zelota, esperto nelle arti magiche e nel procurare la
morte apparente.
Anche se la Crocifissione
è generalmente raffigurata come un evento abbastanza pubblico, i vangeli affermano
(Lc 23:49) che gli spettatori sono stati costretti a guardare da lontano quello
che succedeva. In Matteo, Marco, e Giovanni il sito e denominato come “Golgota”,
mentre in Luca è chiamato “Calvario”.
Golgota-Calvario
si dice che fosse situato al di fuori mura di Erode, a nord ovest di
Gerusalemme, il luogo doveva essere una collina brulla, ed era stato scelto
perché aveva la forma della volta di un cranio; in seguito la tradizione lo
trasformò invece con immagini romantiche, come “una verde, lontana collina”.
Tanti sono
stati gli artisti che hanno interpretato con opere pittoriche e film il
drammatico evento della crocifissione di Cristo, ma nonostante tutte queste
fantasiose e romantiche idealizzazioni, nessuno dei Vangeli fa alcuna menzione
di una collina: secondo Giovanni (19:41) la posizione era un giardino in cui
c’era un sepolcro privato, identificato come di proprietà di Giuseppe di Arimatea
(Matteo 27:59-60).
Seguendo la
testimonianza dei Vangeli, invece di assecondare il folklore popolare, appare
evidente che la crocifissione non fu uno spettacolo in cima ad una collina con
croci enormi contro l’orizzonte e con una folla di spettatori; al contrario, è
stato un evento di piccola scala e in un luogo circoscritto (Giovanni 19:17).
La Dr.ssa
Barbara Thiering afferma che il Golgota-Calvario era un piccolo giardino-cimitero
privato che conteneva un sepolcro vuoto affidato a Giuseppe di Arimatea,
basando le sue affermazioni sui “Rotoli del Mar Morto”.
Appare quindi
fortemente probabile l’ipotesi che Gesù venne sepolto in una tomba di famiglia,
appartenuta probabilmente al suo stretto parente Giuseppe di Arimatea, e che
questo sepolcro possa di fatto corrispondere a quello di Talpiot, rinvenuto nel
1980, a sud della città vecchia di Gerusalemme, così come documentato in questo
prezioso lavoro sulla famiglia di Cristo da Andrea Di Lenardo e Enrico
Baccarini.
Il mito eterno
Appare
evidente che, in base a quanto fin qui rappresentato, se limitassimo le nostre
analisi sulle vicende di Gesù con il solo metro della ragione, non potremmo che
certificare il fallimento della missione messianica del Cristo, non solo
nell’impresa di liberare la Palestina dall’occupazione romana, ma anche in
quella di sconfiggere la blasfemia di un corrotta stirpe sacerdotale.
Il
dominio romano proseguì infatti fino a decretare la distruzione del tempio di
Gerusalemme, avvenuta nel 70 d.C. ad opera di Tito, con conseguente diaspora
del popolo ebraico; mentre, considerando la moderna Chiesa come legittima erede
del messaggio Cristiano, analizzandone la storia fino ai giorni nostri, non
possiamo che stendere un velo pietoso sull’ambizioso progetto di eliminare la
corruzione del tempio.
A
quanto pare alcuni temi salienti della vita di Gesù, così come tramandati dai
vangeli, analizzati al di fuori di ogni aspetto simbolico-evocativo, non
possono che trasformare la storia di un messaggio spirituale in quella di un mero
intrigo politico.
Possibile
che la vita di Gesù, il fondatore di una nuova religione, possa essere relegata
a questa miserabile descrizione dove, al posto di un Maestro, fautore di una
rinnovata spiritualità, troviamo un pazzo disprezzato da tutti?
E’ evidente che
la storia di Gesù non possa essere ridotta alla banale cronaca di un ribelle
salvato dalla pena di morte. I vangeli, compresi gli apocrifi, se assunti nella
loro valenza simbolica, costituiscono infatti la testimonianza di un evento
unico per l’intera umanità.
Quella del Nuovo
Testamento non è la cronaca di uno Zelota nel fallimento di una missione
terrena.
La vita, la passione,
la morte e “rinascita” di Gesù, più che la cronaca di un ribelle, esprimono
l’essenza di un mito antico, presente fin dagli albori dell’umanità, contenendo
il sentiero iniziatico di conoscenza per il riscatto dell’umanità oppressa dal
proprio divenire materiale.
Le vicende legate a Cristo non
appartengono alla storia, ma sono la storia di una rinnovata eterna
spiritualità, di una nuova alleanza con l’inconoscibile, che vive al di fuori
di ogni spazio temporale. È per questo che il cercatore di verità non può
prescindere dal prendere in considerazione gli elementi evocativi di leggende e
simboli che si intrecciano agli accadimenti della storia, contribuendo al loro
stesso fluire per un disegno superiore posto a fondamento del tutto e che tutto
comprende.
Le vicende
narrate dai Vangeli rappresentano la via del cuore, dell’intelletto d’Amore, e
non solo della ragione. Gesù è colui che ha rovesciato un potere religioso per
riconsegnarci la parola perduta.
Gesù
rappresenta, in termini simbolici, il verbo fattosi carne per la salvezza
dell’umanità o quanto meno nella speranza di un mondo migliore.
La storia lo
conferma da duemila anni, la potenza misterica dell’avvento del Cristo ha rivoluzionato
la religiosità dell’intera umanità. Il messaggio che ne scaturisce è
l’espressione di un nuovo patto tra Dio e l’Umanità, tra spirito e materia,
dove l’anima si rinnova elevandosi (anàstasis) attraverso l’Amore.
Ritornando al nostro artista De Dominicis, con il quale abbiamo
introdotto questo commento, non possiamo che concordare con lui sul fatto che le storie per
esistere dovrebbero essere eterne, immortali, e quella
di Cristo è una storia che appartiene all’eternità di un mito, nel quale vive
un messaggio misterico immortale, trasmesso agli uomini come traccia per un
ritorno alla propria tempio celeste.
[i] L’argomento è stato trattato in alcuni miei libri
come: “Il mistero di Maria Maddalena. Dai
vangeli gnostici ai Rex Deus”, Grapho5, seconda edizione 2012. A tale
proposito si veda anche: “Nel Nome della
Dea. Sulle tracce dell’Antica Religione”, Tipheret Editore, 2015 e “Et in Arcadia Ego. I miti dei Popoli del
Mare”, Tipheret editore, 2017. Sempre sull’argomento si consiglia anche il
libro di Padre Alberto Magi: “Nostra
Signora degli eretici” Cittadella Editrice, 1997.
[ii] Massimo Agostini, “Il mistero di Maria Maddalena…” op. cit.
[iii] Ivi
[iv] Giuseppe Flavio, “Guerra
Giudica” (II,121)
[v] In merito ai Nazirei e alle organizzazioni
iniziatiche al tempo di Gesù si rimanda al mio lavoro: “Et in Arcadia Ego. I miti dei Popoli del Mare, Tipheret editore,
2017.
[vi] Padre Alberto Magi, “Un Dio che serve gli uomini” in occasione della “X settimana
alfonsiana”, Palermo 2004, in ildialogo.org.
[vii] Ivi
[viii] Vedasi nota i